Questo non è il solito articolo che parla della differenza tra coaching e consulenza, è la storia di un percorso professionale che parte dalla consulenza “anni novanta” e arriva al coaching per definire un nuovo modello di consulenza per le aziende che non ha un nome proprio , e che possiamo definire “consulenza coaching-oriented”: applicare tecniche di coaching alla consulenza tradizionale per diventare co-creatori di cambiamento e di crescita aziendale in modo ecologico e funzionale per le persone.
Qui c’è la mia storia.
In principio era il consulente.
Quando ho iniziato la mia professione, nel lontano… no, meglio non pensarci…le aziende si rivolgevano al mercato della consulenza; erano alla ricerca di professionalità qualificate e specifiche capacità di problem solving per il miglioramento.
Il punto di riferimento in Italia erano le grandi società di consulenza anglosassoni (Andersen, Price-Waterhouse, Deloitte, ecc.) mentre in Italia la più famosa era la Galgano & Associati, la prima tra le italiane, nella quale ho lavorato per qualche anno.
Erano gli anni in cui la managerialità entrava nelle aziende italiane con argomenti come il Total Quality Management, il Design For Six Sigma.
Le aziende avevano bisogno di competenza tecnica, la conoscenza di metodi e strumenti di miglioramento che aumentassero il livello di managerialità e competenza del personale, spesso molto tecnico e concentrato sul processo produttivo.
Il consulente era di solito un personaggio carismatico, capace di analizzare i dati e i processi e di individuare la soluzione organizzativa o tecnica più efficace per ottenere il cambiamento richiesto.
Per aumentare il carisma, l’innovazione era codificata da metodi strutturati dai nomi esotici, forgiati nella fucina dell’esperienza delle più grandi aziende manifatturiere come la Ford, la General Electric, la Toyota o altre grandi.
Le tecniche avevano nomi importanti come fishbone diagram, control chart, six sigma, muda, Kaizen, DFSS, etc.
Il processo di creazione del cambiamento era semplice: analisi, progettazione, esecuzione, controllo dei risultati.
Si cominciava a parlare di Project Management ed io ho personalmente installato sul mio PC la versione 1.0 del programma Projects di Microsoft (quando ancora era fornito gratuitamente nel pacchetto di Office Professional).
Il principale nemico del consulente era la famigerata “resistenza al cambiamento”. La cosa buffa è che la resistenza al cambiamento era anche il principale alibi: quando un progetto non funzionava la causa era inevitabilmente “la resistenza al cambiamento”.
Ogni possibile interferenza alle linee guida di progetto era vista come un ostacolo da abbattere.
Non c’era nessuna “mappa del mondo” da preservare, le mappe aziendali venivano rase al suolo e ricostruite.
Il consulente arrivava da solo oppure con un proprio stuolo di giovani consulenti pronti a tutto, insomma una piccola squadra d’assalto votata al sacrificio pur di ottenere il risultato desiderato.
Non c’era molto interesse di trovare la leva motivazionale: bisognava portare risultati misurabili, tangibili e in poco tempo, applicando fedelmente “la metodologia”, che detta così assomigliava tanto ad una liturgia, un rito da seguire con devozione e fede nel risultato.
Non posso negare di aver fatto parte di quel mondo, fino a non poterne più.
Mi andava stretta la necessità di seguire il rigido binario del metodo, io che da sempre amavo integrare conoscenze e discipline diverse per creare metodi sempre nuovi, non riuscivo proprio a costruire una mia immagine basata sul metodo.
Poi qualcosa è cambiato: la conoscenza dei metodi è diventata parte integrante della formazione universitaria e il mondo del lavoro si è riempito di persone competenti ma incapaci di governare il cambiamento.
Dalla consulenza al Change Management
Quando la conoscenza delle tecniche è diventata una commodity, le aziende si sono accorte che non è sufficiente conoscere e applicare un metodo per renderlo parte della cultura aziendale, bisogna lavorare sulle persone, oltre che sulle tecnologie e sui processi.
La domanda aziendale si è rivolta verso la formazione di nuove competenze manageriali, relazionali, di comunicazione, di leadership.
E’ stato il momento del Change Management, cioè il lavoro strutturato da parte di formatori esterni rivolti a produrre un cambiamento dei processi ed anche della mentalità delle persone.
E’ la fase (che sopravvive anche oggi) dei grandi “percorsi formativi” e dei “Residenziali” nei quali si cerca di fornire in un paio di giornate un’esperienza “zippata” da poter comodamente scompattare in azienda.
Peccato che quando si rientra in azienda, le cose sono diverse, ci sono i problemi e i casini di tutti i giorni e il cambiamento finisce nel cestino del proprio sistema operativo comportamentale.
Intendiamoci: è stato un bel passo avanti rispetto ai “Consulting Days”, è una bella rivoluzione che tuttora mi appassiona: per fare un esempio, la possibilità di lavorare sull'”essere Service Manager” e non solo sulle tecniche di Post Vendita è una bella sfida.
Il Change Management in azienda è un obiettivo talmente sfidante che per molte aziende ha richiesto anni per ottenere cambiamenti tangibili.
Eh già, perché non basta introdurre un sistema di valutazione delle competenze o svolgere un corso di formazione sulle tecniche di valutazione delle performance per riuscire a cambiare l’identità di un capo reparto, serve pazienza e un’azione continua, bisogna lavorare sul singolo e non solo per la durata di un weekend, bisogna agire in modo intensivo ed in profondità.
Il coaching entra in azienda
Il coaching in azienda è entrato dopo queste fasi di evoluzione e si è inserito molto bene perché è stato in grado di rispondere alla domanda di crescita delle persone, non solo dal punto di vista professionale, anche dal punto di vista interiore per arrivare a gestire meglio le proprie capacità e svilupparne di nuove.
Le aziende si sono rese conto che la resistenza al cambiamento non è quasi mai una resistenza “razionale” dovuta all’esperienza di metodi di lavoro, è una “resistenza interiore” che blocca anche le persone che per prime vorrebbero attuare il cambiamento.
E’ semplice affermare che “il responsabile della manutenzione dovrebbe evitare di intervenire in emergenza ed operare per prevenire i guasti e le interruzioni della produzione” ed anche lo stesso responsabile non mancherà di riconoscere che questo principio è vero ed è giusto.
Tuttavia, come la mettiamo con il suo bisogno identitario che lo porta ad agire come un “pompiere” e lo fa sentire davvero realizzato come persona, solo quando interviene a risolvere i problemi e le emergenze che si creano nel reparto?
Reincorniciare il suo ruolo da quello di “risolutore” ad un ruolo di “pianificatore” non è solo questione di tecniche o di formazione, è una questione di convinzioni e di come la persona percepisce sè stessa in azienda. Togliere dal processo l’intervento tecnico su guasto, equivale a reprimere la sua identità.
Lo stesso dicasi per la capacità di delegare, la capacità di comunicare la visione di un progetto, la capacità di standardizzare o di creare dei processi automatizzati.
I più grandi ostacoli al cambiamento non sono nelle procedure, sono dentro ciascuno di noi.
Per ottenere risultati in questi percorsi di cambiamento non è più sufficiente lavorare sul metodo di lavoro, sulla formazione, bisogna lavorare anche sulle persone e aiutarle ad evolvere e ristrutturare letteralmente la propria immagine all’interno dell’azienda.
Per questo motivo il coaching è diventato uno strumento di fondamentale importanza per le aziende. Come sempre, le prime a muoversi sono state le grandi aziende, sempre in cerca di novità, poi sono arrivate le medie aziende (soprattutto per le figure dirigenziali), adesso il coaching si sta diffondendo nelle aziende di tutte le dimensioni.
La nuova specie
E adesso? Ci fermiamo qui?
Certo che no, anche perché il mondo si evolve e questi ultimi anni sono stati significativi per comprendere il cambiamento che sta avvenendo nelle organizzazioni.
Nel giro di pochi anni abbiamo superato alcune crisi economiche, abbiamo visto un cambiamento profondo delle consuetudini di vita ed è emersa una nuova sensibilità nei confronti del business.
Gli esempi di successo, non sono più soltanto le grandi aziende iper-industrializzate e iper-strutturate come la Toyota, la General Electric, la IBM; sono aziende flessibili, multiforme e multibusiness, capaci di reinventarsi velocemente come Google, Tesla, Apple, Alibaba.
Prendiamo ad esempio Facebook. Facebook Inc. fondata nel 2004, possiede e sviluppa contemporaneamente tre piattaforme che possono sembrare tra loro in concorrenza: Facebook, Instagram e WhatsApp, oltre a sviluppare progetti in numerosi altri settori Hi Tech.
Mark Zuckerberg, a meno di 40 anni, ha già dichiarato che in futuro si ritirerà dalla scena del business per dedicarsi a iniziative benefiche seguendo l’esempio di Bill Gates.
Che dire poi di Elon Musk e delle sue numerose società che vanno dall’Automotive alle tecnologie spaziali?
Un aspetto fondamentale della nuova era della vita professionale è il sempre minor divario tra vita lavorativa e vita privata e con esso il sempre più forte bisogno di trovare un significato.
Non si lavora più solo per la carriera e il guadagno, si lavora per uno scopo; “Start With Why” come recita il celebre Simon Sinek.
In queste aziende è fondamentale che tutti abbiano una visione ampia del business per poter vedere e prevedere in anticipo gli scenari futuri.
Si sta facendo strada nelle aziende il concetto di “Multipotenzialità”, le aziende richiedono sempre di più collaboratori “Multipotenziali”
Cosa significa “multipotenziale”?
Fino a qualche anno fa (e in molti casi ancora adesso), la iper-specializzazione era vista come un fattore premiante per il successo professionale. Più la competenza era verticale, di nicchia, e maggiore era la possibilità di fare carriera.
Se però si analizzano le competenze delle persone di successo ci si accorge che la loro preparazione e la loro capacità non si sviluppa in una sola direzione: hanno molteplici potenzialità che sono sviluppate e attive contemporaneamente e che concorrono tutte insieme al successo di chi le possiede.
Le persone multipotenziali sono capaci di integrare discipline diverse, sono più creative, possono trovare nuove strade e far fronte ad una difficoltà o ad una crisi in modo più efficace.
Non sono necessariamente più efficienti, ma in una società che abbatte le barriere tra vita professionale e vita privata, è più importante l’equilibrio, della produttività estrema.
Per le aziende italiane, questo può essere un nuovo Rinascimento, se ben sfruttato e l’assistenza alle aziende in questo campo è fondamentale.
La rivoluzione multipotenziale è una nuova frontiera per chi si occupa di assistenza alle aziende.
Torna ad essere importante la conoscenza di metodi, tecnologie e modelli manageriali, ma a differenza della prima ondata della consulenza, l’applicazione non è più rigida e acritica. La conoscenza ampia è importante per poter costruire nuovi percorsi professionali. Oltre alla conoscenza è però importante l’equilibrio, l’allineamento dei propri livelli di pensiero e la capacità di mantenere un livello alto di positività.
Questi sono i nuovi bisogni delle aziende: ampliare i propri metodi di lavoro, essere capaci di integrarli in un tessuto fatto di individui unici, con una propria storia e una propria personalità.
La risposta a questa nuova domanda è una consulenza che integra tecniche di coaching, la consulenza coaching-oriented appunto.
Quali sono le caratteristiche di questo metodo di lavoro? Innanzitutto una conoscenza molto ampia di metodi e modelli di gestione in modo da poter attingere da una banca dati più ampia possibile. In secondo luogo, sono necessarie le competenze tipiche del coaching: capacità di ascolto attivo, capacità di porre domande (le famose “powerful questions”), la capacità di comprendere dove le barriere al cambiamento non sono operative ma risiedono nei valori e nelle convinzioni delle persone, fino a lavorare sulla capacità delle persone di percepirsi in un modo diverso, con una nuova identità.
Il lavoro di consulenza orientato al coaching mira a creare nelle persone il senso profondo del perché fanno quello che fanno.
Questa a mio parere è la nuova frontiera dei servizi alle imprese e per ora e per i prossimi anni è la migliore risposta ai bisogni delle organizzazioni e soprattutto delle persone che nelle organizzazioni ci vivono e lavorano.